Perché io valgo

 

Mi fa sempre un po’ sorridere la pubblicità di quella marca di prodotti per capelli dove una donna, solitamente bellissima e con una chioma plastica, mi guarda negli occhi e mi dice: perché voi valete. Sorrido perché, in fondo, faccio fatica a credere che sia vero. Da un anno e mezzo mi occupo di sindrome dell’impostore e ho ascoltato le storie e i vissuti di più di cento persone, per la maggior parte donne, che scelgono di privare il mondo del proprio contributo meraviglioso perché non si sentono di valere abbastanza. La sindrome dell’impostore, in particolare nel mondo del lavoro, ha degli aspetti sistemici che non è possibile ignorare e che determinano la nostra capacità di partecipare, di raccontarci e di divenire consapevoli del nostro valore

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Questa puntata di Facciamo SalOtto è corale, perché riporta le risposte che Silvia Zanella, manager, esperta di comunicazione per le risorse umane in una grande società di consulenza e autrice di “Il futuro del lavoro è femmina”, ha dato in diretta alle domande di Alessandra, Agnes, Barbara, Cristiana, Linda, Lubov, Monica, Flavia, Sabina e di tante altre donne, nell’ambito di “Scusa che lavoro fai? Self promotion Learn How to Get Swag”, evento dedicato al personal branding che ho organizzato in collaborazione con i circle Creative Women e Digiwomen di Lean In Milan.

Come facciamo a capire qual è il nostro valore?

Questa è la domanda da un milione di dollari. Pensa a quello che fai, chiediti con quante cose, tra quelle che fai, nella tua carriera o nelle tue passioni, ti senti a tuo agio, quante ti risuonano positivamente e in che modo ti risuonano. Il nostro valore è il fil rouge di coerenza rispetto alla nostra identità, qualcuno la chiama vocazione, è un approccio, un’attitudine, una competenza che abbiamo usato dappertutto, che ci rende uniche e rende unico il nostro racconto. 

Come facciamo a comunicarlo con le parole?

Quando, magari in un colloquio, ci chiedono di raccontare il nostro percorso di carriera, si tratta di andare a trovare tre cose: identità, cioè il nostro valore, il contenuto che vogliamo comunicare e il pubblico a cui lo vogliamo dire. Il pubblico è la persona, l’azienda, il network, con cui ci stiamo relazionando. Il contenuto deve essere rilevante per il mio pubblico e avere un significato rispetto alla mia identità e al valore che porto. Quindi dobbiamo capire quale mio tratto mettere in evidenza, perché il nostro valore è spesso sfaccettato, e fare una scelta: questo perché l’attenzione del pubblico è limitata e se diamo troppi elementi rischiamo di confondere e di annacquare il nostro valore in tante parole inutili. Il personal branding non è marketing, ma è comunque comunicazione; non è autoreferenzialità, non è vantarsi, ma è andare a scegliere strategicamente quegli elementi interessanti per un pubblico in modo tale da risultare posizionata rispetto a quegli elementi e attrarre un’opportunità. 

Come facciamo a comunicarlo nel CV e su Linkedin?

Io consiglio di rifare il CV almeno una volta all’anno, lo trovo un esercizio di consapevolezza veramente importante. E anche prendersi cura del proprio personal branding, perché non farlo è farlo, comunichiamo sempre e comunque, anche quando non diciamo o non postiamo sempre. Servono ovviamente delle competenze comunicative per fare un buon personal branding, esattamente come servono competenze tecniche per fare ogni mestiere. Ricordiamoci i tre pillar: valore, contenuto e pubblico.

Valgono anche per i canali che scegliamo per raccontarci, CV e LinkedIn, ma non solo, anche un blog, un sito personale e tutti gli altri social network, una newsletter e così via. LinkedIn non è solo un CV pubblicato su internet, è prima di tutto un ecosistema, perché ci consente di arricchire la nostra storia con contenuti, interventi e informazioni utili, ed entrare in contatto con persone che sono a loro volta contatti di persone che sono fuori dalla nostra bolla. Diventa un mondo piccolo e ricchissimo e starci, viverlo, dare il proprio contributo, richiede tempo e competenze. Anche perché i social fanno parte del processo di selezione di un’azienda e, quindi, se li abbiamo, dobbiamo abitarli con consapevolezza e contenuti coerenti. 

Un tipo di CV che può essere utile sia per il proprio personal branding sia per raccontare la propria storia professionale in modo tale da esprimere il nostro valore, non è quello cronologico, ma è il CV funzionale. Qual è la differenza: anziché dare rilevanza alle date di inizio e di fine del periodo in cui ho lavorato per un’azienda, e i job title che mi sono stati assegnati, si sceglie di dare rilevanza alle occasioni e alle esperienze che mi hanno insegnato di più, cosa ho imparato e in che modo mi hanno resa quella che sono. È, a tutti gli effetti, un esercizio di storytelling che parte dalla domanda: che cosa voglio valorizzare, di me?

Come facciamo a comunicarlo con i numeri?

La quantificazione piace a clienti e recruiter, ma non è sempre così facile e trasparente. In questo il CV funzionale è molto utile. Quantificare il proprio valore, il proprio impatto, è più difficile in certi settori, ma non è vero che i KPI non ci sono, bisogna solo cambiare prospettiva e immaginarli. Molto utile è anche il nostro ecosistema: si parla poco, soprattutto tra donne, di soldi, ma se fate parte di una community questo è un modo per acquisire quel benchmark del vostro mercato che, altrimenti, non avreste. In ogni caso, il punto di partenza è sempre quella consapevolezza di cui abbiamo parlato prima: devo conoscere il mio valore e riconoscermelo, prima di chiedere alle altre persone di fare lo stesso.